Nella nostra sezione sulle storie degli orti urbani in Italia abbiamo potuto scoprire svariate realtà e progetti. Il fenomeno dell’agricoltura urbana ha ora una forma definita, un’identità vera e propria, con le sue eccellenze e le sue criticità.
Abbiamo voluto vederci più chiaro con un esperto, Alfonso Pascale, Presidente del CeSLAM (Centro Sviluppo Locale in Ambiti Metropolitani) e fondatore della “Rete Fattorie Sociali”.
Secondo lei a cosa è dovuta la crescita degli orti urbani in Italia?
La crescita degli orti urbani non è affatto una moda destinata ad esaurirsi rapidamente. È invece l’esito di un processo che viene da lontano e di cui l’opinione pubblica finalmente prende coscienza, all'interno di un contesto mediatico-culturale in cui si fomentano pregiudizi e fraintendimenti concettuali. Il fenomeno si è avviato lentamente negli anni ’70 del secolo scorso, sull’onda di un ripensamento del modello di sviluppo che si era imposto nel periodo precedente. Tra gli anni ‘50 e ‘60, con la crisi ecologica, si era infatti verificata una rottura epocale come esito di due derive rovinose: da una parte, l’erosione delle relazioni interpersonali e del senso di comunità; dall’altra, la riduzione degli agricoltori a destinatari passivi delle tecnologie.
La sensibilità ecologica e il bisogno di legami comunitari fecero dunque emergere 40 anni fa le prime forme di resistenza verso le idee sottese dal modello distruttivo di capitale umano e risorse naturali. E così all’esodo agricolo impetuoso si contrappose un lento ma sostenutoesodo urbano. I figli e i nipoti di chi era fuggito dalle campagne alla ricerca di condizioni di vita più appaganti scoprirono che nelle aree periurbane e rurali le cose sarebbero potute andare meglio.
Così gli elementi che in passato distinguevano l’urbanità dalla ruralità si sono gradualmente ridimensionati e quelli che restano si sovrappongono e creano nuove differenziazioni. Tali diversità non hanno nulla in comune con quelle precedenti e riguardano: stili di vita, rapporti tra persone e risorse, modelli di possesso, uso e consumo dei beni, modelli alimentari, forme di welfare, scelte etiche e multi-idealità relative alle motivazioni di produttori e consumatori.
Anche altre polarità si sono fortemente attenuate fino a scomparire: centro e periferia, metropoli e aree interne hanno perduto i significati originari. E hanno dato vita a nuove entità policentriche e multi-identitarie. Queste nuove entità variano molto e sono caratterizzate da differenze di capitale sociale, beni relazionali, reti di interconnessione e legami comunitari.
Sul versante più propriamente economico-produttivo, le antiche distinzioni tra imprese agricole, imprese industriali e imprese di servizi si diradano e vengono sostituite da imprese intersettoriali: imprese a rete nel comparto alimentare e imprese di servizi sociali, culturali, educativi, ricreativi, ambientali, paesaggistici, in cui il connotato agricolo è fornito da elementi non tanto materiali quanto immateriali.
Da un’ agricoltura produttivistica stiamo dunque andando verso un’agricoltura terziarizzata. E in tale processo si collocano le pratiche degli orti urbani: una risposta spontanea ad una domanda di servizi innovativi da parte degli abitanti delle città.
Oggi queste pratiche stanno avendo una fase di grande espansione non solo tra gli anziani ma soprattutto tra giovani coppie con figli. E ciò avviene perché il fenomeno della nuova ruralità, avviatosi negli anni ’70, non solo è nella sua fase più matura, ma finalmente viene percepito dall’opinione pubblica nel suo significato più profondo: un correttivo di civiltà, una reinvenzione in forme moderne della funzione originaria dell’agricoltura come generatrice di comunità legate al territorio.
Del resto la parola “coltivare” in ebraico antico era resa con il termine “abad”, il cui significato letterale è “servire”. Coltivare la terra è dunque servire la natura e la comunità.
L'agricoltura urbana e sociale in Italia può contare su progetti, iniziative, istituzioni coinvolte e associazioni attive lungo tutta la penisola: possiamo ritenerci soddisfatti o "si può fare di più"?
Si può fare molto di più se si affrontano alcuni problemi nuovi:
- abbattere alcune barriere normative;
- combattere una serie di pregiudizi;
- chiarire taluni fraintendimenti concettuali.
Per quanto riguarda il quadro normativo, manca ancora un chiaro riconoscimento dell’impresa agricola di servizi. I servizi sociali, socio-sanitari, educativi, culturali, ambientali e ricreativi offerti dalle imprese agricole sono attività ancora oggi considerate connesse a quelle di coltivazione e allevamento e non già attività agricole a tutti gli effetti. Questa barriera va abbattuta, passando al riconoscimento pieno delle agricolture plurali. Per quanto concerne gli stereotipi duri a morire, bisogna abbattere la dicotomia che oppone il dono al mercato, la gratuità al doveroso. Le conseguenze sono gravi perché portano a considerare la gratuità come una faccenda estranea alla vita economica normale e ad “appaltare” il dono a settori per specialisti, come il “non profit”, il volontariato o la filantropia.
Un mercato senza gratuità diventa semplice gioco speculativo e respinge la vera innovazione. Un dono che rifugge dai contratti e combatte la reciprocità tra equivalenti e il doveroso delle regole diventa il “gratis”, lo “sconto”, lo “straordinario”, il “superfluo” che presto si tramutano in “non necessario” e persino “inutile”.
Un’economia civile, generativa e feconda, non può che nascere dalla varietà, dalla diversità, dalla multi-idealità, dalla promiscuità e dalle contaminazioni tra realtà diverse. Già oggi il mercato e la gratuità, da una parte, e la competizione e la collaborazione, dall’altra, sono facce della stessa buona vita comune. Basta guardarsi intorno per notare che la gran parte delle imprese sono mosse da obiettivi diversi (sociali, relazionali, ideali, simbolici), e non solo dai profitti. E questa caratteristica non pregiudica affatto il loro essere imprese di mercato a tutti gli effetti. La loro valenza non solo “for profit” non comporta affatto che siano destinate, inesorabilmente, a soccombere nel mercato globale.
Vanno infine chiariti alcuni fraintendimenti concettuali. La multifunzionalità dell’agricoltura non è in antitesi con la competitività. La filiera corta può benissimo convivere con l’internazionalizzazione delle imprese. E questo perché la prossimità non si ha solo quando l’esperienza del rapporto produttore/consumatore avviene nel medesimo territorio, ma anche quando è realizzata tra comunità lontane. Le quali, attraverso le tecnologie digitali, costruiscono relazioni intime, cioè collaborative.
Le agricolture di relazione e di comunità non vanno intese come un’arcadia a cui aggrapparsi per difendersi dalle minacce della globalizzazione. Questa visione protezionistica e neo-corporativa è fomentata da lobby che intendono esercitare su queste agricolture un controllo sociale e strumentalizzarle per drenare fiumi di denaro pubblico a vantaggio dei propri centri di potere.
Un altro equivoco da diradare è la confusione tra pubblico e collettivo. Gran parte dei demani comunali non sono di proprietà dei comuni ma sono proprietà delle popolazioni, cioè proprietà collettive, e dovrebbero essere gestite da amministrazioni separate, elette dai cittadini appositamente per organizzare servizi alle popolazioni locali.
Possiamo imparare qualcosa da esperienze culturalmente diverse? Penso ad esempio al movimento dei contadini urbani nelle città americane.
Non solo possiamo imparare da esperienze diverse dalle nostre, ma dovremmo aprirci a relazioni che vedano comunità situate nei più disparati angoli del pianeta interagire costantemente in base a logiche di reciprocità.
Gli scambi dovrebbero riguardare non solo beni e servizi ma anche pratiche comunitarie di uso delle risorse, culture alimentari, modelli di welfare. Nelle culture che si sono succedute e contaminate nell’area del Mediterraneo, l’idea di vicinato e di prossimità non ha mai avuto a che fare con la geografia o con le appartenenze di qualsiasi tipo, ma sempre coi doveri di reciprocità nei confronti degli altri.Nelle culture che si sono formate intorno al “Mare Nostrum”, “prossimo” è colui che si prende cura e si fa carico dell’altro, indipendentemente dalle distanze fisiche e dai legami etnici, politici, religiosi e culturali. “Prossimo” non ha nulla a che vedere con il chilometro zero o il chilometro mille, con il brand di un’associazione o con quello di un’altra, con la bandiera di una nazione o con l’emblema di un’altra, ma ha a che fare con il grado di “intimità” o superficialità delle relazioni che le persone, le imprese e le comunità costruiscono tra di loro per convivere e collaborare.
Le tecnologie digitali oggi fanno miracoli nel permettere la costruzione di relazioni “intime” tra imprese e territori di regioni e paesi anche molto lontani. L’applicazione di tali ritrovati tecnologici consentirebbe di cogliere meglio le opportunità della globalizzazione.
Non c’è contraddizione tra reti di imprese che guardano ai mercati internazionali e filiere corte. Entrambe le forme possono coesistere e interagire per mettere radici nei territori e allungare i rami verso il mondo.
Qual è la prospettiva futura degli orti urbani in Italia?
Dipende da come le società locali penseranno al loro sviluppo. Sono già alcune decine i comuni e le altre amministrazioni pubbliche che hanno emanato i regolamenti per gli orti urbani, e c’è un pullulare di tavoli di confronto in altrettante amministrazioni su questa materia.
Manca tuttavia una visione d’insieme e, soprattutto, non c’è un approfondimento sulle forme di gestione di beni che appartengono alle popolazioni e che quindi non dovrebbero essere privatizzati nemmeno nella forma dell’assegnazione ad associazioni private non lucrative.
Alcuni comuni hanno allo studio progetti di utilizzazione di terreni comunali da affidare a cooperative di comunità o a fondazioni di partecipazione per fare in modo che il protagonismo delle comunità locali abbia una platea la più ampia possibile. Visioni stataliste e burocratiche frenano ancora la ricerca di forme di gestione comunitarie che possano ispirarsi alla tradizione dei demani civici e delle proprietà collettive e, dunque, a forme di reale coinvolgimento dell’insieme dei cittadini di un determinato territorio.
Negli ambiti urbani, il modello di gestione - ancora in fase progettuale - che più si avvicina alla tradizione delle proprietà collettive è il “condominio di strada” per creare comunità di proprietari e inquilini lungo le vie cittadine e organizzare servizi comuni, compresa la gestione di quei beni (corsi, viali, vicoli, aree verdi, rive di fiumi, ecc.) che da proprietà pubbliche potrebbero progressivamente trasformarsi in proprietà collettive.
Nuova ruralità e imprenditoria multi-ideale dell’agricoltura, interagendo in modo virtuoso, potrebbero contribuire a dare centralità alla responsabilità e alla partecipazione come categorie sociali capaci di rompere definitivamente il circolo vizioso della cultura della dipendenza e della delega e di realizzare concretamente processi di autonomia ed emancipazione delle realtà locali.
È dunque un’opportunità per le amministrazioni locali che dovrebbero acquisire una più spiccata capacità di programmare gli interventi e di promuovere e accompagnare i percorsi progettuali partecipativi “dal basso” in cui integrare obiettivi di sviluppo sostenibile, inclusione sociale, tutela e valorizzazione delle risorse agricole e paesaggistiche, rigenerazione urbana, riconversione ecologica, e finalità delle azioni riguardanti la promozione dell’agricoltura sociale e la gestione dei rifiuti per riciclaggio e riuso.
Si tratta di formalizzare tali percorsi mediante la metodologia della ricerca-azione, producendo così un’innovazione sociale derivante da un’osmosi orizzontale e circolare tra conoscenza scientifica, saperi esperienziali comunitari e azione politica e amministrativa.
Alfonso Pascale - Presidente CeSLAM (Centro Sviluppo Locale in Ambiti Metropolitani) e fondatore Rete Fattorie Sociali
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